DICEBAMUS HERI... la "Tunica stracciata" alla sbarra (Tito Casini, 1967)

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DICEBAMUS HERI... la "Tunica stracciata" alla sbarra (Tito Casini, 1967)

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DICEBAMUS HERI... la "Tunica stracciata" alla sbarra
(Tito Casini, 1967)


«DONEC EGREDIATUR SPLENDOR»

Lieto di un «episodio» (il più grave, secondo lui; il più importante, secondo me) della guerra
allora e tuttora in atto intorno al mio libro La Tunica stracciata, uno dei miei più cordiali «nemici»
scriveva, nella sua rivista Testimonianze: «Non so se Tito Casini, dopo tanta disavventura, ha
deciso di ritirarsi»;
mentre, ansiosi per lo stesso «episodio», altri si chiedevan lo stesso augurando
il contrario. Al desiderio degli uni come al timore degli altri rispondono queste mie nuove pagine,
dettate dal medesimo amore che dettò quelle: amore confortato, anzi che scoraggiato, da tale
«episodio», e sollecitato dal progressivo ruinare in basso loco di ciò che il libro aveva visto
abbandonar la verace via quel 7 marzo 1965.


Dico della Liturgia, e lo dico mentre a Roma si sta svolgendo, e volge alla fine, il Sinodo
episcopale, con dei progetti, nei riguardi del Culto, che ci hanno fatto rabbrividire, anche se la
quantità e qualità delle voci avverse (non bastassero Atti papali come la Lettera Sacrificium
Laudis e l'Allocuzione Ecce adstat) non ci consentono di dubitar della reiezione di quel
mostriciattolo focomelico, il peggior prodotto fin qui della talidomide riformistica, presentato
sotto la denominazione di «Messa normativa».



No, caro padre Balducci; no, innumerevoli amici che la speranza di lui ha turbato: io non mi
ritiro, io non diserterò il campo fino a che, socii passionum, come ora siamo, non lo saremo et
consolationis, ci sia dato di qua o di là rivedere il sole.



Propter Sion non tacebo, propter Ierusalem non quiescam, donec egrediatur splendor... e
questo nuovo libro non tanto è, pur essendo, una giustificazione dell'altro, quanto una ripresa,
dicebamus heri, e continuazione: non una difesa di me, in altre parole, ma di ciò che io difendevo
e difendo e che potrebbe aver per impresa parole di quell'«episodio»: Dei honorem, Ecclesiae
Sanctae decorem.



E chi sei tu, mi s'è chiesto e mi si può chiedere, da incaricarti di questo? A chi poteva o potesse
credere che io presuma di me risposi e rispondo che io sono un «asino», al servizio di Dio e della
sua Chiesa. La storia sacra ne ha più d'uno, degli asini, che han servito, da asini, ai disegni divini,
da quello di Balaam, a cui mi sono espressamente paragonato, a quello, cui non oso paragonarmi,
che Gesù cavalcò entrando in Gerusalemme e che certo non si montò la testa come se fossero per
lui gli osanna e per le sue zampe le vesti stese per terra. Meno immodestamente, mi paragono
all'asinus portans mysteria, senza l'illusione circa l'oggetto degli applausi.


Ce n'est pas vous, c'est l'idole à qui cet honneur se rend... Non a me, è fuor di dubbio, ma a ciò
che io porto, a ciò che io difendo - con gli zoccoli, se volete, per dire alla maniera degli asini - è
dovuto unicamente l'ampio consenso che hanno raccolto quelle mie pagine. Pagine di accusa,
pagine forti, lo riconosco e non sto a ripetere (l'ho fatto là e lo farò, qui, dentro) perché ho scritto
così. Faccio mie le parole con cui un gesuita inglese (autentico, secondo il cuore di sant'Ignazio),
il padre Christie, cappellano dell'Università di Cambridge, nel febbraio scorso, replicava alle
minacce di un prelato del suo stesso Ordine, di cui aveva pubblicamente rimbeccato le pubbliche
dichiarazioni «in aperto contrasto con la dottrina della Chiesa di Roma». Invitato a scusarsi, egli
rispondeva: «No, non mi scuso, e non m'importa un bel niente delle reazioni che possono derivare
dal mio intervento... Nella vita di un uomo giunge sempre il momento in cui bisogna levarsi in
piedi e assumere la propria responsabilità. Così ho fatto».



Con la stessa tranquillità - Non timebo quid faciat mihi homo... - di fronte ai possibili inconvenienti, per me d'ordine umano, ho impugnato e torno, qui, a impugnare la penna, come ho creduto mio dovere, contro i sovvertitori di quella «regola del pregare» la cui stretta connessione con la «regola del credere» è detta da un celebre assioma: Legem credendi lex statuat supplicandi e veniva riconfermata or è poco da un celebre canonista dell'Università di Magonza, con un avvertimento di cui vediamo pur troppo in atto la verità: «Si pensa di poter difendere la Rocca della Dottrina cedendo la spianata davanti, che è la Liturgia; ma è proprio sulla spianata che si deciderà la battaglia». Ed è per amor di quella come di questa che noi restiamo sulla spianata.


Con quale speranza, cui bono, torniamo a chiederci, dal momento che l'«ordine», come si crede,
è di cedere e i capi ne dànno, «tutti», l'esempio? Alla domanda perché si ostinasse o credesse di
aver ragione a resistere, quando tutti i vescovi inglesi e tutto il Parlamento gli erano contro,
Tommaso Moro rispose (non ignorando ciò che gli sarebbe costato): «Per ognuno dei vostri vescovi
io ho centinaia di santi e per tutto il Parlamento io so di avere con me la Chiesa».
Senza pensare
ad accostamenti che farebbero giustamente sorridere pur chiedendone licenza col si parva licet
con cui il poeta paragonava le api ai ciclopi, io sento di poter dire ugualmente. Di diverso, nel caso
mio, non c'è che il numero dei santi, tanto e cosi gloriosamente aumentato dopo la Controriforma.
Salvo questo, la mia risposta è la stessa: per il Consilium e per, tutti quelli che mi son contro, io so
di avere con me il Concilio e la Chiesa. Gli onesti intelligenti a cui il mio libro era destinato lo hanno
riconosciuto, e mi basta. Per gli altri, illusi o pervicaci zeloti della «nuova mentalità» (è ancora a
quell'«episodio» che io mi riferisco), vale ciò che fu detto parecchi anni addietro:
Neque si quis ex
mortuis resurrexerit...



Quanto ai possibili «inconvenienti» (cose da nulla, in ogni caso) di questa mia posizione, io
tengo fede alla regola: Fais ce que dois, vienne ce que pourra: fa' quel che devi, accada quello che
vuole.

Per aver mantenuto fede, servendo la Chiesa, a questa sua massima, Giovanna d'Arco salì il
rogo. A me, per ora, è accaduto solo di vedermi rifiutare pubblicamente la Comunione.

Firenze, in festo Domini Nostri Iesu Christi Regis, 29 ottobre 1967.

Tito Casini


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L'ACCUSA


«Imputato, Eccellentissima Eminenza Cardinale Lercaro, alzatevi! Il Sacro Supremo
Tribunale della Chiesa di Pietro ha preso le sue decisioni nei vostri confronti: Vi riconosce
colpevole del reato di attentato alla sicurezza e al prestigio della Chiesa Cattolica. E vi condanna
alla deposizione della tunica...»


Così, sotto un grosso titolo, Il Lutero di San Petronio, prende il via su un foglio di Roma un
articolo che mi riguarda; e confesso che, leggendo queste prime parole e credendo a un qualche
mio ignoto amico, compagno di passione e di lotta per il ritorno della Chiesa a Roma, alla sua
lingua, al suo rito, m'è venuto il sudore.

Dico per la grossolanità, la goffaggine di un tale esordio, che -disonorerebbe un usciere, non
dico un presidente di tribunale, pur non potendo, quanto allo stile, dispiacere agli operatori
della Riforma di cui il cardinale Lercaro è il legittimo Praeses... Ero fortunatamente in errore, e
il seguito dell'articolo valse subito a rasserenarmi: «Fantasie, si intende» (il verdetto su esteso)
« ma qualcuno vorrebbe che si tramutassero in concreta realtà: questo qualcuno è l'illustre
scrittore cattolico Tito Casini».
Non un amico, dunque, Dio sia lodato, non un commilitante, ma
un avversario, al quale potevo dire come Andrea Hofer, l'eroe tirolese, ai francesi che lo
fucilavano: «Ah, come tirate male!»

Processo, dunque, ma nel quale l'imputato son io, ed ecco, in condegno stile, l'imputazione:
«Che cosa ha fatto questo Tito Casini? Ha scritto un libro, La Tunica stracciata, in forma di lettera
aperta all'Eccellentissimo monsignor Vescovo presidente della Commissione Liturgica, cioè al
cardinale Lercaro Arcivescovo di Bologna, reo di avere con troppa foga insistito per l'abolizione
del latino nell'uso liturgico preferendogli il volgare».
E rivolgendosi, con ironica cortesia,
all'imputato: «Ci permetta, illustre Casini, dirle che se ritiene che la sacralità del culto religioso
cattolico stia essenzialmente nel fatto dell'uso del latino e che il volgare-italiano non possa far
comunicare l'individuo con Dio, lei di religiosità non ne ha mai capito niente e continua a
rimanere con caparbietà in questa sua ignoranza. Ma siamo seri, illustre scrittore, forse che Dio
non capisca l'italiano, oppure sia raccapricciato per l'abolizione del latino!»



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Raccapricciato da questo genere d'italiano - che il buon Dio sicuramente capisce, avvezzo
com'è a quell'altro, succeduto al latino -, può darsi che, qui arrivato, qualcun si chieda o mi
chieda il perché, di tanti che sui giornali - dalla Croix all'Unità, e non per contrapporre la croce
al diavolo, il fratello separato degli angeli, il che sarebbe contro il «dialogo» in corso - si son
stracciati la tunica per sdegno contro la mia Tunica stracciata, abbia preso, per iniziare la mia
difesa, proprio questo Ivan De Musso, di un giornale così Carneade quale questo Corriere di
Roma (30 aprile 1967). «Domanda legittima», risponderò col medesimo, «che ci siamo posti
anche noi»,
incerti se conservarlo, questo fra i tanti, o metterlo nel mucchio della carta per
involtare che passo regolarmente al mio bottegaio, al prezzo convenuto che non bestemmi più
contro i «preti d'oggi» che abolendo il «venerdi» gli hanno fatto andare a male una partita di
baccalà, e mantenga il lumino a olio davanti al quadro della Madonna, olio che al dir di lui,
secondo quei «preti d'oggi», sarebbe meglio adoprare per condir l'insalata... L'ho ripreso e me
ne servo, come sto facendo, perché ci trovo, condensate, quasi tutte le accuse che mi si fanno: le
accuse per cui a qualcuno, chissà, a qualcuno forse rincresce che al par del latino, del venerdì»
e di tante altre anticaglie si sia abolito anche l'Indice e si cerca di rimediarvi, segretamente,
diffidando le librerie «cattoliche» - libere di tener libri sul sesso tali da nauseare un marchese
De Sade e, in materia di eresie, far concorrenza ai protestanti - dal tenere un libro, come La
Tunica,
che ha il solo o il principal torto di appellarsi, in fatto di liturgia, alla Chiesa, ai Papi, al
Concilio.


L'Indice, dico, e per poco non dico l'Inquisizione, come insinua argutamente un altro giornale
- Realtà Politica, in un corsivo dal titolo Un rogo per Casini - anch'esso meravigliato di tanto
rigore, in confronto di tanta licenza e licenziosità lasciata a quegli altri. «Il linciaggio morale dello scrittore Tito Casini, reo di avere espresso la sua opinione di cattolico sulla riforma liturgica, continua. Il furibondo crucifige dei progressisti di tutte le risme e di tutti i calibri è al colmo. Costoro, i progressisti, dopo aver reclamato libertà, democrazia, possibilità e diritto di parlare su tutto e su tutti, vogliono imporre il silenzio a chi non la pensa come loro. Tito Casini è uno dei reprobi, cui si vorrebbe impedire di parlare. Pensiamo all'Inquisizione e al rogo. Se fossero tempi di condanne a morte nessuno potrebbe evitargliela... Dicono che questa è l'epoca dell'amore, della carità. Naturalmente per gli altri: per gli atei, per i comunisti, per i dialoganti, per gli apostati. Per i cattolici fedeli alla tradizione, invece, forca e fucilazione. Nel nome del Signore!»


Nel nome del Signore! e concedete che mi ripaghi del brivido baloccandomi ancora un poco,
prima di affrontar la difesa, con questo così poco romano Corriere di Roma, che critica la mia
«acerba critica», nei confronti di una persona della Chiesa, in questi così rispettosi termini nei
confronti d'altre persone e del Capo medesimo della Chiesa: «Il suo libro» (continua, sempre
rivolto a me, quest'Ivan De Musso) «definito da Papa Paolo VI ingiusto e irriverente» (ed è vero)
«per la polemica contro il cardinale Lercaro, ha avuto un solo triste merito: quello di mettere a
nudo il dramma della Chiesa o meglio della Santa Sede. Il libro, che rispecchia lo stile e il
carattere propri della gente toscana arguta e criticona, ma poco riflessiva, anzi essenzialmente
impulsiva, e del quale invano l'arcivescovo di Firenze, cardinale Florit, ha cercato di fermare la
pubblicazione»
(ed è falso) «porta la prefazione del cardinale Bacci» (ed è vero). «Ecco scoperto
il dramma della Santa Sede, che dopo alcuni anni, si può dire dopo la morte di Pio XII, viene rosa
da una lotta intestina fra due correnti, una progressista capitanata da Lercaro e l'altra
conservatrice reazionaria al comando della quale sta (guarda un po' chi si rivede) il cardinale
Ottaviani,
cioè il Bonifacio VIII del XX secolo, come lo chiamano i suoi commilitoni. In mezzo a
queste due correnti Paolo VI, che non è né potrebbe essere per la sua funzione di frizione fra le
due schiere, né... ne...»
(tralascio, per rispetto al Papa, due termini) «anche se intimamente egli
è un conservatore»
(ed è falso) «costretto a seguire il cammino intrapreso da Giovanni XXIII...
Questo dissidio interno è deleterio per la Chiesa»
(ed è vero). «La Santa Sede, ed è quello che è
risultato dal Concilio, deve andare di pari passo con i tempi, deve progredire nel suo fine di
unione universale... Questa unione non si potrà ottenere aderendo alle tesi dell'ala
conservatrice del cardinale Ottaviani, né tanto meno a quelle di Tito Casini»
(ed è curioso,
perché il qui nominato sostiene principalmente il latino, in armonia con tutti i Papi e con papa
Giovanni in particolare, proprio in quanto «perspicuum venustumque unitatis signum», in
quanto «vinculum peridoneum di unità fra tutti i cristiani, e la «tunica», al dire di lui, è
«stracciata», o in via d'esserlo, proprio perché è stracciata quest'unità della lingua).


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Re: DICEBAMUS HERI... la "Tunica stracciata" alla sbarra (Tito Casini, 1967)

Message par InHocSignoVinces »

Né si creda che il mio accusatore romano ce l'abbia con la lingua di Roma come Renzo col
«latinorum» di don Abbondio. Disprezzerebbe, se così fosse, il suo eminente difeso, del quale
ne fa invece una dote, accostandolo in questo al suo presunto contrario, sia pure per
contrapporli con un «ma» che ristabilisce distanze e meriti: «Il cardinale Bacci per esempio è
un latinista e vive immerso in questo studio. Anche il cardinale Lercaro è un illustre cultore di
questa magnifica lingua»
(lo voglio credere, e ne godo) «ma ha saputo rinunciarvi per il bene
dei fedeli»
(salva l'intenzione, ne dubito). Se non che, di lì a poche righe, questa «magnifica
lingua» mi si trasforma in un segno tutt'altro che d'intelligenza e di religiosità in chi la coltiva,
e meno male per il cardinale Lercaro che ha quel «ma» a suo vantaggio! «Si provi a chiedere»
(mi chiede infatti il mio accusatore) «a quelle persone delle quali ha sondato l'opinione perché
a loro piace il latino: le risponderanno che il latino è più grandioso, è più bello. Giustificazione
alquanto cretina, propria di animi poveri di spirito e soprattutto poveri di vera fede cristiana».

Dopo di che, dico dopo questo nuovo saggio di rispetto e di carità progressista, mi chiedo a chi
spetti il miramur tra me e il mio accusatore; il quale esce, di seguito, in questa esclamazione:
«Ci meravigliamo di lei, illustre scrittore toscano!» E meno male per i miei occhi, dico per la mia
modestia, messa in pericolo da tutto questo lustrare, che la cortesia della forma non vela la
severità degli avvertimenti: «Attenzione, signor Tito Casini, potrebbe essere un'eresia!»


Dopo questa grossa parola, rinforzata dall'esclamativo, io farei, con questo mio Corriere di
Roma, come il Manzoni dopo la parola «accidenti» del suo anonimo milanese, se certi amici
romani non mi avessero fatto avere altri numeri dello stesso giornale dove si sostiene, in
tutt'altro stile, esattamente il contrario, ne soltanto in fatto di parlare ma di tutto ciò che il mio
accusatore chiama e commenda «andare di pari passo con i tempi». Quanto a quello, il latino,
«nota caratteristica di unità, punto di raccordo per tutti i cristiani del globo», che «ha risuonato
per secoli nelle nostre chiese»,
vedere in esso «una barriera che abbia ostruito la marcia della
Chiesa»
vi è considerato «una ingenuità giustificata soltanto dalla totale ignoranza».
«L'eliminazione del "latinorum"» (vi è pur detto) «e l'adozione della lingua nazionale non hanno
estirpato la mala erba della indifferenza religiosa».
E si aggiunge: «Però anche l'italiano se la
vede brutta. Col dialetto, parlato dalla massa del popolo italiano, possono nascere dei guai. I
vernacolisti, presto o tardi, reclameranno anche loro la Messa in vernacolo...»
E la sferza
dell'ironia, che il De Musso adopra contro di me, viene adoprata contro i De Musso (i
«latinofobi») proprio come se non si trattasse dello stesso giornale.


La qual cosa mi rammenta un altro giornale, anch'esso romano, del tempo della mia gioventù,
intitolato Perseveranza, che per la sua perseveranza nel voltar giacca e livrea, nell'adattarsi a
tutto e a tutti, la sua cura di «andare a pari passo con i tempi», ossia con chi governava, veniva
chiamato con l'anagramma di Serve e pranza; e non dirò che questo sia il caso, ma certo è che
con la Riforma, servendo, parecchi pranzano.


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Re: DICEBAMUS HERI... la "Tunica stracciata" alla sbarra (Tito Casini, 1967)

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ANTESIGNANI


Resta che con tante e tali accuse o suspicioni a mio carico io ho, prima che il diritto, il dovere
- come cristiano - di difendermi, ossia di spiegarmi.


Penso all'ultima, di quelle che ho riferito: «potrebbe essere un'eresia!» e se non ho più da
temere il rogo, quaggiù, se non rabbrividisco di umano orrore passando, nella mia città, per
piazza della Signoria, rasente al tondo che ricorda il Savonarola (e a ricordarmelo c'è bene un
giornalista, francese, Bernard Noél, sul Figaro: «Títo Casini, qui veut jouer les Savonarole...»), di
un altro tondo e di un altro rogo mi preoccupo, assai più e con ragione, io che credo ancora e
con ferma fede nel terzo dei novissimi e ho ben presente il Vae! del Vangelo con quella macina
che meglio sarebbe legarsi al collo eccetera eccetera, pur considerando anche il rimanente:
Nocesse est ut veniant scandala... Mossi da questo stesso pensiero, Giovanni Papini e Domenico
Giuliotti - i due grandi amici che io mi compiaccio e i miei accusatori m'imputano di avere avuto
per tali - scrivevano, rispondendo al bu-bu sollevato dal più «scandaloso» dei loro libri non
«edificanti» (e scusatemi se la citazione sarà un po' lunga: i nostri casi si somigliano, l'opuscolo
è, d'altra parte, introvabile, e chi ha buon gusto avrà anzi da ringraziarmi di averglielo almeno
fatto assaggiare dotandone la mia povera prosa):


«Sappiamo che a parecchia gente il nostro Omo Salvatico non piace. Che alla gente dei salotti
e delle redazioni non dovesse piacere la prosa villereccia degli uomini dei boschi si sapeva
anche prima di stamparlo... Ma ci dicono che fra gli scontenti ci siano alcuni cattolici - dei
cattolici " moderni ed aperti " - e allora la cosa diventa più grave... Dinanzi ai nostri fratelli in
Cristo abbiamo il dovere di esaminare severamente l'opera nostra per vedere se abbiamo
sbagliato o se sbagliano loro. Non pretendiamo di poter sfuggire all'errore... Ci siamo dichiarati
pronti ad accettare le correzioni consigliate da coloro che sono al disopra di noi. Uno di questi
superiori - il più alto fra quanti ne abbiamo potuti avvicinare in questi giorni - non ha affatto
disapprovato il nostro volume ed anzi ci ha confortato con parole che non possiamo e non
dobbiamo ripetere».
È, anche questo, il mio caso, e se potessi parlare, se potessi dire quali e
quanti «superiori», in violaceo e in porpora, m'hanno approvato e incuorato - senza pur
chiedermi il segreto -, il mio accusatore di dianzi, che m'invitava, e con ragione, a far «tanto di
cappello di fronte a sua Eminenza Lercaro»,
ne avrebbe, a sua volta, da fare a tanti da rischiare
un raffreddore o un'insolazione. Seguitiamo: «Ma queti non potremo essere finché non siano
persuasi tutti, finché vi sia un cattolico - intendiamo un vero cattolico e veramente in buona
fede - il quale sia scandalizzato dal nostro libro...»



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Re: DICEBAMUS HERI... la "Tunica stracciata" alla sbarra (Tito Casini, 1967)

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Per chi sia il libro, in particolare, eccolo detto, e si direbbe, se l'opuscolo non fosse uscito nel
1923, che sia de' nostri e pe' nostri giorni, come se nelle prime linee di allora essi avessero
denunziato e attaccato la febbre d'oggi: questa «fièvre-moderniste» (come la chiama il
Maritain) «auprès de laquelle le modernisme du temps de Pie X n'était qu'un modeste rhume
des foíns»
: « Il libro è destinato... agli eretici inconsapevoli che accanto a Cristo e più di Cristo
adorano gl'idoli (l'Oro, la Scienza, la Potenza); ai negatori i quali immaginano che la sapienza
"moderna" ha superato per sempre la Rivelazione antica. Questi combattiamo e per questi
scriviamo... il nostro è un libro contro il Mondo - inteso nel senso dell'Evangelo - e specialmente
contro il mondo moderno».
E ripetono e incalzano, quasi presagi di questi giorni nei quali in
nome del «dialogo» si dovevano veder la Chiesa e l'eresia impegnarsi «alla ricerca della verità
su piede d'uguaglianza»
; e «le nostre chiese, le nostre grandi chiese, tutte le nostre chiese»,
dichiarate «non funzionali» e perciò da rifarsi; e la lingua e il canto e i riti vigenti sotto quelle
volte da sempre, diventare da prescritti proscritti;
ripetono e incalzano, i miei due amici cui è
giovato per la loro pace morire prima d'ora che alla morte si nega la sublime dolcezza di quelle
sublimanti esequie gregoriane e latine: Noi siamo «contro... quel Mondo moderno che sta
distruggendo e calpestando gli ultimi vestigi dei valori religiosi, morali ed estetici della
Cristianità... Chi ama Cristo non può amare i nemici, gl'insultatori della Chiesa. Chi ama il Mondo, o lo tollera, o l'ammira o l'accarezza, non è vero cristiano anche se crede d'esserlo; perché non v'è compromesso possibile» (oggi avrebbero detto «dialogo») «fra lo spirito di Cristo e lo spirito del Mondo... Chi crede di poterlo fare ha certo due facce ma non ha neppure un'anima... Non sappiamo, francamente, cosa voglia dire, per un cattolico vero, esser "moderno". Il cattolicismo non vive nella moda dei tempi ma nella sicurezza dell'eternità».

Invece di «moderno» oggi è di moda dire «aggiornato», ma è lo stesso vecchiume, lo stesso «cattolicismo fatto di concessioni
e di compromessi, di tiepidezze e di viltà», di cui essi ricordano la prima infatuazione sotto
quella prima denominazione: «Ci furono, anni fa, dei cattolici "moderni" anzi "modernissimi",
tanto "moderni" che coll'aggiunta di sole tre lettere dell'alfabeto e di una dozzina di eresie
diventarono issofatto qualcosa di ultramoderno e si chiamarono Modernisti...» E i casi sono
talmente simili, o meglio la febbre è salita a tanto che io posso, e a maggior ragione, far mio il
loro ergo: «Nessuna meraviglia, dunque, se i cattolici moderni, modernizzanti o modernisti,
trovano forte sapor d'agrume nel nostro libro... quei cattolici così "aperti" che a forza d'apertura
non si accorgono di aprir la porta ai loro nemici».
Qualche cosa di simile a ciò che san Pio X, il
papa della Pascendi, rispondeva a padre Semeria che invece di aprire gli parlava di allargare:
«allargare le porte della Chiesa» (che sarebbe stato l'intento dei modernisti, e lo riferiva tempo
addietro sull'Osservatore Romano il nostro Casnati): «Il vostro è un cosiffatto allargare che chi
c'è ne esce e chi non c'è non c'entra»,
e l'Olanda è là che c'insegna.


Chi c'è ne esce, o si ribella, e penso, in questo momento, leggendo il giornale d'oggi (Corriere
della Sera, 8 luglio), giusto all'Olanda, il paese dove la Riforma, dove la neo-liturgia ha avuto
come ognun sa nei pastori i più ferventi attori e attivisti: penso a questi «sedicimila giovani
cattolici» che si sono apertamente schierati contro l'enciclica del Papa sul celibato ecclesiastico,
dichiarando insieme di voler respinger «la lingua in cui il documento pontificio è redatto»; e il
giornale aggiunge che anche non pochi seminaristi si sono pronunziati allo stesso modo in una
lettera «oltremodo sarcastica nei confronti di Paolo VI»: da cui deducesi che disprezzo per il
latino, per il celibato e per il Papa (almeno là, fra quei cattolici all'avanguardia del riformismo
liturgico) son polloni della stessa radice, non occorre dir di che pianta.


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Chi non c'è non c'entra, e valgano a far meditare gli antilatinisti, riformatori e aggiornatori in
buona fede, questi brani di una lettera diretta a un periodico musicale (Cappella Sistina,
gennaio-marzo 1967) da uno che nella Chiesa aveva già un piede e stava per metter l'altro: il
professor Cristopher Mathews, di Londra, che già aveva cercato Dio «attraverso i testi
dell'Islam, di Budda, dell'Induismo»,
in ultimo «attraverso la Bibbia», fin quando, dice, «un giorno, non molto tempo fa, andai a Messa: la vecchia Messa latina. Conosco il latino abbastanza per capirne qualcosa, ma non fu il significato letterale delle parole che mi impressionò. C'era nei suoni, nei ritmi, nei canti una relazione di chiave e di tono che mi avvinse: il mistero della Messa ci giunge attraverso tali elementi, quasi senza parole. Le parole sono quasi un pretesto per farci giungere all'adorazione. Iddio parla tra le parole, non attraverso le parole. Sarei
certamente diventato cattolico, un giorno, per questo. Come avrei potuto negare il mio aiuto ad una Chiesa che era per tanti il solo mezzo per conoscere ciò che Dio, nella Sua bontà, ha voluto donarmi al di fuori di essa: quel continuo senso della Sua pienezza e della Sua gloria? Mi sarei sottomesso al suo giogo per salvare l'anima mia e per portare gli uomini più vicini a Dio, più vicini al sacro mistero. Ora la vecchia liturgia latina serviva a questo...
Ma oggi nella Chiesa non solo c'è chi sembra rinnegare tutto ciò, distruggendo - nella maniera netta e precisa con cui la ghigliottina decapita un uomo - il sacro ed occulto significato delle Messe, ma chi appare propenso a distruggere tutte le più antiche forme di culto... E ci si vanta di questa opera in nome della santità e dell'uomo comune! Quale santità può avere una liturgia senza mistero? In quella Chiesa che aveva il potere di trascinarmi sulla via cristiana verso Dio, e fare un cattolico di un uomo che vi s'era ribellato per orgoglio, si sta ora distruggendo tutto quello che mi attirava a lei, e non si sta creando nulla al posto di quello che si distrugge. Nulla che porti l'uomo a Dio, nulla che lo trascini più vicino a Dio. Nulla!» E amaramente conclude: «Benedetto son io, che ora so che devo, come un tempo avevo deciso, seguire Dio solo per la mia strada...»


In un'altra rivista, La Penna, la cui piccolezza («Per Bergamo e per i Bergamaschi») ricorda le piccole botti del proverbio, un prete scrive che «nella sua parrocchia il nuovo corso liturgico, se ha guadagnato sì e no un tre-quattro per cento alla Chiesa fra quelli che prima non ci andavano o ci andavano ben poco, ne ha tuttavia persi dal dieci al quindici per cento di quelli che prima vi erano assidui, ai quali questa Messa squallida, senza più gregoriano né pulpito né incenso, non pare più nemmeno Messa», e un altro dice: «un suo parrocchiano, un ex-valdese convertito, non gli va più in chiesa perché gli pare ormai diventata una sala da culto, come quella dove andava da protestante, mentre lui alla Chiesa cattolica era stato attratto una domenica in cui, trovandosi all'estero, era entrato in un tempio dove si cantava la Messa degli Angeli in latino. Quella lingua universale, uguale al suo paese come in qualunque punto della terra, e quel gregoriano, quel prefazio, quel Credo... lo avevano travolto e conquistato...»


Quanti di questi travolgimenti, quante di queste conquiste dovute alla sua «lingua universale», al suo gregoriano, ai suoi incensi, al suo - diciamolo con la loro parola - «trionfalismo», conta la storia della Chiesa senza contare nessuna perdita per questo? «Claudel», ricorda il cardinal Siri, «fu convertito dal canto del Magnificat sentito la notte di Natale in Notre Dame di Parigi»: ...fecit potentiam in brachio suo: dispersit superbos mente cordis sui. Deposuit potentes de sede, et exaltavit humiles... e ci chiediamo quale travolgimento, verso la porta uscita, non avrebbero prodotto in lui quegli sentiti nella versione e nella declamazione di San Petronio di Bologna: «Egli opera potenza col suo braccio, disperde i superbi nell'intento del loro cuori; abbatte i potenti dai troni e innalza i miseri; gli affamati li riempie di beni, e i ricchi li svuota» (per cui potranno chiamarsi ricchi svuotati quelli che un giorno chiamavamo ricchi sfondati).


Sappiamo che quegli stessi nostri due amici entrarono, traendo tanti altri, nella Chiesa attraverso il portale della bellezza, della sua liturgia, e se li abbiamo or ora detti fortunati perché poterono uscirne, all'invito di quel Proficiscere, in quella scorta del Subvenite, al canto di quella promessa Ego sum, sull'ali di quell'In Paradisum, ora ci viene di rimpiangerli... non fosse che per una nuova edizione, aggiornata, di quel loro famoso-famigerato Omo Salvatico, della cui difesa ci siam serviti qui per la nostra, e ne citiamo, per nostro uso, ancora quelle poche parole: «Quelli che non s'infiammano d'ira non son capaci d'infiammarsi d'amore; sono gli eterni tiepidi che la bocca d'Iddio, com'è scritto nell'Apocalisse, vomiterà »


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