LA TUNICA STRACCIATA - Tito Casini

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Re: LA TUNICA STRACCIATA - Tito Casini

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ESTETISMO?


«Estetisti»: e sarebbe, tornando al culto, un giusto rimprovero se non badassimo, per l'esterno, all'interno: se la bella facciata c'incantasse lì e non inducesse, anzi, a entrare: se la bellezza non fosse, umanamente e spiritualmente, incentivo all'amore... e abbiam pur visto come alla Chiesa la sua bellezza sia stata già feconda di figli.

È lei stessa, si è detto, che si rappresenta, rappresenta la sua preghiera,
nella «Sposa di Dio» che «surge a mattinar lo Sposo perché l'ami», e perché
l'ami essa va adorna: sicut sponsam ornatam viro suo... La festa propria della
Chiesa, quella della Dedicazione, è tutta un inno alla sua bellezza: Dotata Patris gloria...
Respersa Sponsi gratia... Regina formosissima... e la Madonna, la
Tuttabella
, è sua immagine.

«Pregare in bellezza». Fu motto di Pio X, il quale non era un «estetista» ma
un santo; e per i cultori della bellezza, gli artisti, è stata, per bocca di Paolo VI,
l'ultima voce del Concilio: «A voi, ora, innamorati della bellezza e che lavorate
per lei... La Chiesa ha da lungo tempo fatto alleanza con voi. Voi avete edificato
e decorato i suoi templi, celebrato i suoi dommi, arricchito la sua liturgia... Oggi
come ieri la Chiesa ha bisogno di voi e a voi si rivolge... Questo mondo in cui
viviamo ha bisogno della bellezza per non naufragare nella disperazione. La
bellezza, come la verità, è ciò che infonde la gioia nel cuore degli uomini, è il
frutto prezioso che resiste all'usura del tempo, che unisce le generazioni e le accomuna...


E qui giunti, dico al Concilio, qui sostiamo, insieme ai due grandi papi a cui
il Concilio ha reso specialissimo onore accogliendo con amplissimo universale
plauso l'annunzio del loro Collaboratore e Successore di volerli elevare alla
gloria dell'altare: dico Pio XII e dico Giovanni XXIII... Ci è permesso, Eminenza,
ci è permesso, eccellentissimi Vescovi, ci è permesso, reverendissimi Parroci,
esser d'accordo con loro, dico coi servi di Dio Pio XII e Giovanni XXIII? Ci condannerete
se fossimo, pur sapendo che equivarrebbe a condannar loro, e condannare non si può chi si vuole santificare?


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InHocSignoVinces
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Re: LA TUNICA STRACCIATA - Tito Casini

Message par InHocSignoVinces »

IL SERVO DI DIO PIO XII


Chiediamo dunque al servo di Dio Pio XII (che il suo successore già venerava, auspicandone la proclamazione a dottore) il suo pensiero e volere sulla
Messa in volgare, che già a suo tempo gl'«innovatori» smaniavano e s'adoperavano d'introdur nella Chiesa.

Eccolo, nella solennità e con l'autorità di un'enciclica, la Mediator Dei, del
1947: «È severamente da riprovarsi il temerario ardimento di coloro che di
proposito introducono nuove consuetudini liturgiche o fanno rivivere riti già
caduti in disuso e che non concordano con le leggi e le rubriche vigenti. Così,
non senza grande dolore, sappiamo che accade non soltanto in cose di poca,
ma anche di gravissima importanza: non manca, difatti, chi usa la lingua volgare
nella celebrazione del Sacrificio Eucaristico... L'uso della lingua latina... è
un chiaro e nobile segno di unità e un efficace antidoto ad ogni corruttela della
pura dottrina...»
Eccolo, nella Allocuzione al Congresso di Liturgia, del 1956:
«Sarebbe superfluo il ricordare ancora una volta che la Chiesa ha serie ragioni
per conservare fermamente nel rito latino l'obbligo incondizionato per il sacerdote
celebrante di usare la lingua latina...»
Dice «obbligo», dice «incondizionato», e dice
«la Chiesa», non Noi o i Papi, e la prima di tante serie ragioni è implicita nelle parole con cui conclude
il suo severo richiamo, ordinando che quanto si fa di coro «quando il canto gregoriano accompagna il
santo Sacrifizio... si faccia nella lingua della Chiesa».



Chiediamo a Pio XII - mentre nella Chiesa ferve l'amoroso lavoro per la sua
santificazione - il suo pensiero sul «comunitarisrno», sull'orazione personale,
espressamente su «quella cosa» tirata fuori e «sgranata» durante la Messa; ed
ecco che cosa egli ci risponde, ancora con la Mediator Dei:
«L'ingegno, il carattere e l'indole degli uomini sono così varî e dissimili che
non tutti possono ugualmente essere impressionati e guidati da preghiere,
da canti o da azioni sacre compiute in comune. I bisogni, inoltre, e le
disposizioni delle anime non sono uguali in tutti, nè restano sempre gli
stessi nei singoli. Chi, dunque, potrà dire, spinto da un tale preconcetto,
che tanti cristiani non possono partecipare al Sacrificio Eucaristico e goderne
i benefici? Questi possono certamente farlo in altra maniera... come, per
esempio, meditando piamente i misteri di Gesù Cristo, o
compiendo altri esercizi di pietà e facendo preghiere, che pur differenti nella
forma dai sacri riti, ad essi tuttavia corrispondono per la loro natura...»



Veniamo all'Altare, al nuovo concetto, intendo, e funzion dell'Altare (negando,
si capisce, il titolo ai surrogati, alle obbrobriose contraffazioni, baracche, bancarelle
i «casse da sapone» adattate, che si vedono, che si tollerano
nelle chiese in vece e spesso con smantellamento di secolari opere d'arte a ciò
destinate e solennemente consacrate, tanto che in nome dell'arte si è sentito
invocar lo Stato a difesa del decoro del culto); ed ecco la risposta in proposito,
in un elenco di deviazioni propugnate e tentate, o meglio ritentate, dagli «innovatori»
del tempo, ripetitori alla lettera, veri plagiari, di ciò che si era detto
e fatto a Pistoia, compreso l'altare unico e l'esclusione dei candelieri e dei
fiori:
«È fuori di strada chi vuol restituire all'altare l'antica forma di mensa»
(Mediator Dei). «Il Concilio di Trento ha dichiarato quali disposizioni d'animo
occorre nutrire quando si è al cospetto del Santissimo Sacramento... Chi aderisce
di cuore a questo insegnamento non pensa ad avanzate obbiezioni contro la
presenza del tabernacolo sull'altare... La persona del Signore deve occupare il
centro del culto, poiché essa è che unifica le relazioni tra l'altare e il tabernacolo
e conferisce loro il proprio significato... Separate il tabernacolo dall'altare equivale
a separare due cose che, in forza della loro origine e della loro natura, devono restare unite»
(Allocuzione al Congresso di Liturgia)


E volendo, appunto, indicare le origini meno lontane di queste vecchie novità circa la lingua e il centro del culto, il servo di Dio Pio XII dice (Mediator Dei): «Questo modo di pensare e di agire... fa rivivere l'eccessivo ed insano archeologismo suscitato dall'illegittimo concilio di Pistoia, e si sforza di ripristinare i molteplici errori che furono le premesse di quel conciliabolo e ne seguirono con grande danno delle anime, e che la Chiesa» («la Chiesa», dice, non Pio VI), «Vigilante custode del "deposito della fede" affidatole dal suo Divino Fondatore, a buon diritto condannò. Infatti tali deplorevoli propositi ed iniziative tendono a paralizzare l'azione santificatrice con la quale la sacra Liturgia indirizza salutarmente al Padre celeste i figli di adozione...»


Eh? che ne pensate, Eminenza? che ne dobbiamo pensar noi? É mai possibile che
il Concilio abbia inteso riabilitare il «conciliabolo» (riprovato, con parole e lacrime
di pentimento, dallo stesso suo promotore)? Ovvero sì, e voi
chiederete a Sua Santità che non santifichi Pio XII ma lo sconfessi, lo condanni,
in quanto difensor del «diaframma», in quanto sostenitor delle «caste» eccetera eccetera?



Vi lasciamo a questo interrogativo, logico, mentre passiamo a interrogar
Giovanni XXIII.


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Message par InHocSignoVinces »

IL SERVO DI DIO GIOVANNI XXIII


Caro santo papa Giovanni, come male ti hanno trattato e trattano in terra,
per tanto bene che meritavi! Mal trattato glorificandoti, e non parlo dei tuoi
nemici - ossia i nemici della Chiesa - che di te, con perfida ipocrisia, con
satanica malafede, si sono fatti una bandiera per attirar gl'ingenui e gli sciocchi.
Quei «nemici della Chiesa», i comunisti, come tu li hai esattamente detti e bollati
fin dal tuo primo atto di papa (l'enciclica Ad Petri Cathedram), che, «con
ingannevoli promesse e false asserzioni»
(ivi) si studiano di traviare il popolo;
che «ovunque hanno in mano il potere tentano con ogni mezzo di distruggere
nell'animo dei cittadini il bene supremo della coscienza, cioè la fede, la speranza
cristiana, gl'insegnamenti del Vangelo»
(ivi); quei comunisti, scrivevi,
«già condannati dai nostri predecessori, in particolare da Pio XI e Pio XII, e che Noi
ugualmente condanniamo»
(ivi), denunziando «la persecuzione che da decenni
incrudelisce in molti paesi anche di antica civiltà cristiana»
con una «raffinata
barbarie»
cui fa contrasto «la dignitosa superiorità dei perseguitati» (Mater et
Magistra
); quei comunisti «costruttori di illusorie torri di Babele» che «finiranno
sicuramente come la prima»,
nei riguardi dei quali «la illusione per molti è grande e la
rovina è minacciosa»,
senza scusa perché «ciò che da anni si compie oltre la cortina di
ferro è troppo noto»
(Radiomessaggio 23 dicembre 1958) e «dialoganti» e «aperturisti»
sono ammoniti di guardarsi e guardare i «lavoratori cattolici» dal «doloroso equivoco....
che per fare la giustizia sociale, per soccorrere i miseri, bisogna associarsi... coi negatori di Dio
e gli oppressori delle libertà umane»
: equivoco così doloroso per te, che tu ne soffri fino
alle lacrime: «Il Nostro cuore piange, quando considera che tanti nostri figli, pur retti
e onesti, hanno potuto lasciarsi sollecitare da tali teorie»
(Discorso ai lavoratori cristiani, I° maggio 1960),
e tutto questo e tant'altro senza una sola smentita in atti o in parole... Non di questi, io parlo, non dei figli
delle tenebre la cui diabolica scaltrezza può pur valersi della bontà, della carità di un santo verso
gli erranti, spacciandola per acquiescenza verso l'errore. Parlo di altri, tuoi «amici», la cui devozione
è sincera e conclamatissima, ma i cui incensi si mescolano, le cui voci spesso fan coro con le voci di
questi, non con tua maggior gioia o gloria, o diciam minor dolore e ludibrio, di quello che si sia fatto
raffigurandoti, in quella tal chiesa, in compagnia di quei tali... E chiudiamo la digressione per ritornar
sulla strada, chiedendo a Giovanni XXIII ciò che abbiam chiesto a tutti e in particolare al veneratissimo
dei suoi predecessori, Pio XII: chiedendo, che anche qui vuol dir ricordando, tanto è nota e solenne,
solennissimamente data, la sua risposta.


È la Veterum Sapientia, è la Costituzione Apostolica dedicata al latino: un
atto così importante per il suo Autore, che per sottoscriverlo e promulgarlo
volle, nel suo massimo fasto, la basilica di San Pietro, la festa della Cattedra di
San Pietro, 22 febbraio del 1962, a pochi mesi dall'apertura e in vista già del
Concilio, indetto «ad Christiani populi unitatem assequendam confirmandamque».

L'onore dice l'amore del Papa per l'oggetto del documento, il quale rappresenta difatti
la più amorosa, la più calda apologia del latino, «lingua propria della Chiesa, con la Chiesa
perpetuamente congiunta».



Riassumendo e facendo suo quanto di più laudativo si era detto nei secoli
dai suoi predecessori e in particolare dagli ultimi, Pio XI e Pio XII, egli la vede,
questa lingua, questo «loquendi genus pressum, locuples, numerosum, maiestatis
plenum et dignitatis»
, nei suoi albori, «quasi quaedam praenuntia aurora
Evangelicae Veritatis»
, non senza voler divino, «non sine divino consilio», fatta
sua dalla Chiesa, la quale «ut quae et nationes omnes complexu suo contineat,
et usque ad consummationem saeculorum sit permansura, sermonem sua natura
requirit universalem, immutabilem, non vulgarem»
: lingua, dunque,
«quam dicere catholicam vere possumus», «perpetuo usu consecrata»,
«thesaurus incomparandae praestantiae», «vincolum denique peridoneum, quo
praesens Ecclesiae aetas cum superioribus cumque futuris mirifice continetur»,

lingua imparziale fatta per rinsaldare le parti, «cum invidiam non commoveat,
singulis gentibus se aequalem praestet, nullius partibus foveat, omnibus postremo sit
grata et amica...»
E non potendo tutto trascrivere, come se ne
avrebbe la voglia e ne varrebbe il piacere, questo «preclarissimo documento»,
questa «pietra angolare» (come detto nel Monitor Ecclesiasticus) della dottrina
della Chiesa circa il latino, passiamo alla conclusione, al pratico, che non
difetta di chiarezza:


«Quibus perspectis atque cogitate perpensis rebus, le quali cose maturamente
considerate e pesate, nella piena coscienza della Nostra carica e con la
Nostra autorità, certa Nostri muneris conscientia et auctoritate, decidiamo e
ordiniamo, statuimus atque praecipimus: I Vescovi e i Superiori maggiori degli
Ordini religiosi... veglino, con paterna sollecitudine, paterna sollicitudine caveant,
a che, nella loro giurisdizione, nessun "innovatore", ne qui e sua dicione,
novarum rerum studiosi, ARDISCA SCRIVERE CONTRO L'USO DEL LATINO sia
nell'insegnamento delle sacre discipline, SIA NEI SACRI RITI, contra linguam
Latinam sive in altioribus sacris disciplinis tradendis sive in sacris habendis
ritibus usurpandam scribant, nè s'attentino, nella loro infatuazione, di
minimizzare in questo la volontà della Sede Apostolica, o d'interpretarla a lor modo:
neve praeiudicata opinione Apostolicae Sedis voluntatem hac in re extenuent
vel perperam interpretentur».



Eh? Come la mettiamo, Eminenza? Per vostra ammissione, e vanto, voi
siete, in hac re, un «innovatore» e che «innovatore»! Contro il latino
(che v'incombeva difendere!) voi avete impugnato non la penna ma il bastone e: -
Fuori di chiesa! - Come la mettiamo, dunque, Eminenza? Perché, qui, una delle
due: o il Papa (papa Giovanni!) sbaglia, con Pio XII, Pio XI e tutti i predecessori,
e non gli si deve dar retta, non si deve quindi santificare, si deve anzi sconfessare,
anche lui (e voi sarete, con convinzione, l'«avvocato del diavolo», contro
di lui), come difensor del «diaframma», come sostenitor delle «caste»: lui più
degli altri, semmai, lui che proibisce fin di discuterne, di trattare, d'impostare,
di ammettere il problema (e ricordiamo la dura faccia con cui diceva a certi
superiori d'Ordine da lui in udienza di cacciar dal convento quelli dei loro che
avessero nella testa quel baco), o sbagliate voi, e noi ci regoleremo come va
fatto.


Non ci risponderete, speriamo, col relativismo, ossia che un atto pontificio
e di un tal pontefice, meditato e solenne come la Veterum Sapientia,
possa valere e viger meno di una canzon di Sanremo: che i padri conciliari,
sepolto fra tante lacrime l'indittore del Concilio, il pio papa Giovanni, sian risaliti dalla
cripta per mandargli dietro, a occhi asciutti, ciò che, ancora umido d'inchiostro,
aveva lasciato alla Chiesa «ad perpetuam rei memoriam», con questa intimazione finale:
«Vogliamo, infine, e ordiniamo, in virtù della Nostra autorità
Apostolica, che quanto abbiamo statuito, decretato, promulgato e comandato
con la presente Nostra Costituzione sia e rimanga ratificato e confermato,
contro qualsiasi disposizione in contrario per autorevole che possa sembrare: ...
contrariis quibuslibet non obstantibus, etiam peculiari mentione dignis».



L'ipotesi va respinta, come assurda in se stessa e ingiuriosa per il Concilio.


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Re: LA TUNICA STRACCIATA - Tito Casini

Message par InHocSignoVinces »

IL CONCILIO


Il Concilio, di fatto, per quanto il diavolo si sia ingegnato di metterci le corna
e la coda, è stato fedele a papa Giovanni, come papa Giovanni a tutti i suoi
predecessori, e non è sua colpa se la legislazione liturgica da esso emanata s'è
risolta, attraverso l'organo esecutivo (che avrebbe dovuto essere, e chissà
perché non sia stato, la Congregazione dei Riti), in quello strumento di eversione
che in nome della pietà, dell'unità, della concordia, dell'arte, della poesia,
della bellezza, cattolici e non cattolici, credenti e non credenti detestano.



Tutt'altro che bandire il latino - come si crede comunemente da preti e da
laici, che parlano e parlano di riforma senza che nessuno abbia letto o visto pur
da lontano la Costituzione - il Concilio lo riconferma, come lingua del culto, in
termini chiari e lapidari come questi (Constitutio de Sacra Liturgia, articolo
36): «LINGUAE LATINAE USUS IN RITIBUS LATINIS SERVETUR: L'uso della
lingua latina, nei riti latini, sia conservato».
Punto fermo e a capo: REGOLA,
dunque; e il capoverso conferma logicamente la regola, ammettendo, «Cum
tamen», la possibilità di limitate eccezioni. «Posto, tuttavia, che... non
infrequentemente, haud raro, l'uso della lingua volgare possa riuscire, exsistere
possit, assai utile per il popolo, è concesso ch'essa vi abbia parte, specialmente
nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti, in lectionibus et admonitionibus,
in nonnullis orationibus et cantibus...» Identica facoltà (non obbligo e non
raccomandazione, ma piuttosto ripetizione di limiti) all'articolo 3:
«Nell'amministrazione dei Sacramenti è lecito usare, adhiberi potest, la lingua
volgare».
«Posto che», «è concesso», «in alcune», «è lecito...». Eccezioni, ripeto,
limitate eccezioni, contro le quali sta sovrana e generale la regola: «L'uso della
lingua latina, nei riti latini, sia conservato»,
e domando, domandiamo noi cattolici per
i quali la Chiesa è ancora romana e non felsinea, come di così poco
potete si sia potuto far tanto abuso: tanto da invertire le cose, da far dell'eccezione la regola
e della regola non pur l'eccezione ma la proibizione,
l'«escluso
per tutti»,
la Messa tollerata «quando il sacerdote la dicesse senza assistenza di
popolo»,
quando «non assistono i Fedeli» ma solo, dunque, le panche.


È vero che una «Instructio ad exsecutionem Constitutionis de sacra Liturgia
recte ordinandam»
(roba vostra, non del Concilio, e nella quale il recte va
inteso esattamente all'opposto, come instructio vale destructio)
vi dava modo di eluder la regola, ossia di ridurre ancora il detestato latino allargando la liceità
del volgare a quasi tutta la Messa, ma anche per questo avevate stabilito voi
stesso una condizione, ossia che si tenesse conto dei luoghi, «pro condicione
locorum»,
e si pensava, che so io? agli ottentotti, ai mau-mau, agli zulù, agli
scotennatori di teste, a tutto si pensava fuor che alla terra di Cicerone e di
Virgilio, al paese dove «parlar latino» è ancora detto, popolarmente, per
«parlar chiaro». Al contrario, mentre laggiù i missionari, come c'informano, mantengono -
necessariamente data anche la quantità dei dialetti e l'impossibilità
di esprimere coi loro vocaboli certi concetti - la liturgia latina, a noi s'impone
il volgare, negandoci, la possibilità di capire, di arrivare a capire, con l'istruzione, fin le parole del segno di croce.



Con l'istruzione, dico, e qui mi torna a mente un prete, vostro devoto, che si
rallegrava, beffandosi di me su un giornaletto toscano, che ora, col volgare, i
suoi parrocchiani non avrebbero più detto, nella recita del Confiteor, «mea
curpa»,
il che non è poco. Certo che ora, se seguitano a venire in chiesa,
diranno «mia corpa», io riconosco che il guadagno valeva bene un Concilio; ma
il bravo priore si scordava che tra i doveri di un parroco c'era anche quello
d'insegnare, di correggere, di fare il catechismo, e questo fin dal Concilio di
Trento, il quale, riaffermata l'intransigenza della Chiesa circa il latino, aggiungeva
appunto che i parroci avevano il dovere d'istruire i loro fedeli sulla liturgia della Messa,
«specie la domenica e nei giorni di festa». Così facevano i «vecchi preti» e vi
assicuro, Eminenza, che il frutto era grande, nonostante il «diaframma» e pur senza gli
amboni elettronici... Quanto al «mea curpa», dedico al curato toscano queste parole
del curato tedesco Schachtner che trovo in una rivista di là, il Klerusblatt:
«In questa nostra epoca in cui ogni "reporter" sportivo presuppone che i suoi uditori comprendano una quantità di termini
tecnici, possiamo anche noi pretendere dai nostri fedeli, già così aperti, una
certa conoscenza della lingua latina»,
e se lo dice lui, un tedesco, per i tedeschi...
Scommetto che i contadini popolani del mio bravo priore sanno benissimo cosa significhino
parole come «boxe», «ring», «derby», «match», «sprint», «forcing», «goo-kart», «juke box»
e tant'altre... e gli parrà di esiger troppo se chiederà che sappiano anche - loro, italiani! -
che cosa significhino «Confiteor», «Gloria», «Credo», «Sanctus», «Pater noster» et caetera et caetera?
Eh, via! s'intende stimarci ciuchi e trattarci a paglia, ma voi state esagerando e chissà che
un giorno o l'altro l'odor del prato (risvegliato da voi stessi con quelle poche
paroline, qua e là, solo per voi e ancora «da signori») non ci faccia strappar la
corda e scappare... So quel che dico, Eminenza: voi non potete basarvi troppo
alla lunga su un'obbedienza come quella del contadino che mi diceva, subito
dopo il 7 marzo: «A me, per verità, la Messa la mi garbava più come prima, ma
in chiesa comanda il prete e io fo come il prete vuole: se vuol che balli, magari,
io ballo, se vuole che fischi io fischio, se vuol che canti Celentano io canto...»



L'ho rivisto, quel contadino, già mio compagno di coro in una parrocchia di
campagna, e c'è rientrato e, con tutt'altro tono, mi ha detto: «Mah! se questa,
ora, è la volontà di chi ci comanda... Però... com'eran belle quelle nostre Messe
cantate!»



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Re: LA TUNICA STRACCIATA - Tito Casini

Message par InHocSignoVinces »

"IN GRATIA CANTANTES DEO"

DALLA «MISSA PAPAE MARCELLI»


Com'eran belle quelle nostre Messe cantate! E c'era, in quelle parole, tanto
rimpianto che m'hanno fatto tornare in mente il Super flumina Babylonis... con
la differenza che i «babilonesi», qui, non ci chiedono ma ci vietano di cantare i
nostri canti, i «canti di Sion», imponendoci di cantare i loro o tacere.

Babilonia, qui, per traslato, è Bologna, la Bologna liturgica impersonata da
vostra Eminenza, la quale, purtroppo, in quanto «diocesi-guida» (Bononia locuta est),
docet, fa scuola, anche in questo, a tutte le altre, le quali vi seguono
semplici e quete come le pecorelle dantesche e quel che là si fa fanno o faranno,
senz'affatto chiedersi «lo 'mperché» o se là si faccia, ciò che si fa, ricordando pur
vagamente una certa Constitutio de sacra Liturgia votata dai Vescovi in Concilio
e di cui fa parte un capitolo, il VI, dedicato al canto, precisamente intitolato De Musica sacra.

Si tratta di dieci articoli, in forza dei quali... bisogna proprio riconoscere che
la sacra Colomba aleggiava in San Pietro, durante i sacri lavori, tenendo a bada
l'intruso, scatenato come si disse ad perditionem animarum... Dico bisogna,
perché alla Musica sacra, in Concilio, gl'«innovatori» intendevano far subire la
sorte già sognata per il Latino. Prova ne sia che della Commissione preparatoria
nessun musicista fu chiamato a far parte, vuoi per il suo personale valore
vuoi per l'alta carica ricoperta in campo, come se a un convegno per la pubblica
sanità fosse superfluo invitare i medici, pur essendocene sul posto e
piuttosto di chiara fama. Il che essendo a qualcuno sembrato assurdo, e
avendo quel qualcuno chiesto il perché di tali esclusioni, non è mancato fra
gl'«innovatori» chi, senza riguardi, lo ha detto: per le loro idee, che non sono
«idee nostre». Come difatti.



Ma nonostante il cattivo inizio, nonostante l'ostracismo dato alla competenza e al talento,
nonostante le intenzioni e gli sforzi di far del gregoriano e della polifonia dei «ci-devant»,
il sovversivismo non l'ebbe vinta, neanche in questo: come già per il latino, per la Musica
sacra il Concilio disse: «SERVETUR: si conservi», e il primo dei dieci articoli a lei consacrati
la esalta, accogliendola dal passato per il presente e l'avvenire, come un tesoro d'incalcolabile prezzo,
indeclinabile e irrinunziabile per la Chiesa: «Musica traditio Ecclesiae universae thesaurum constituit
pretii inaestimabilis... : la tradizione musicale della Chiesa costituisce un patrimonio d'inestimabile valore, che eccelle
tra le altre espressioni dell'arte...»
Elogio che si rinnova passando alla statuizione, chiara e risoluta come s'è detto:
«Thesaurus Musicae sacrae SUMMA CURA SERVETUR et foveatur... : si conservi e s'incrementi con somma cura il tesoro
della Musica sacra»,
e a questo scopo «si promuovano con impegno le Scholae cantorum... si curi molto la formazione
e la pratica musicale, praxis musica, nei seminari, nei noviziati, negli studentati»
e via e via.


Fra i generi di Musica sacra, il gregoriano ha logicamente il primo posto:
«Ecclesia cantum gregorianum agnoscit ut liturgiae romanae proprium: la
Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della Liturgia romana
e vuole perciò che nelle azioni liturgiche abbia il posto principale».
Accanto,
meglio che dopo, la sacra polifonia: «Alia genera Musicae sacrae,
praesertim vero polyphonia, in celebrandis divinis Officiis minime excluduntur»
;
e quanto questa comitanza (ai fini del «pregare in bellezza»: Pio X) stesse
a cuore alla Chiesa dirà Paolo VI ai tremila giovani francesi che lo han commosso cantando
in San Pietro una Messa pontificale in gregoriano e sacra polifonia latina: «Forse alcuni di
voi sono preoccupati per le future applicazioni della Costituzione sulla sacra Liturgia...
Rileggano costoro le pagine di questo ammirabile testo riguardante il canto liturgico,
e in particolare le parole: "Si conservi e s'incrementi con somma cura il tesoro della Musica
sacra e Noi pensiamo ch'essi saranno pienamente rassicurati».


Ne avevamo infatti il diritto; ma che cosa conta il diritto nel tempo di «superbia e sovvertimento» che attraversiamo e che richiama giusto a memoria le tristi parole di Matatia? Sconfitti in San Pietro, gl'«innovatori» hanno, per rifarsi, San Petronio, e si rifaranno, anche in questo, vietando ciò che là si è ordinato, ordinando ciò che là si è vietato.


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Re: LA TUNICA STRACCIATA - Tito Casini

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ALLA «MESSA DEI PICCHIATELLI»


Mi riferisco, Eminenza, alla vostra ordinanza del novembre, per la quale,
«in luogo della Messa in gregoriano», si prescrive - e con rigore: come quella
che «tutte le comunità parrocchiali debbono imparare» e che «nelle Messe
pontificali deve essere la sola da eseguirsi»
- una messa in italiano, denominata
«Vaticano II» ma che dal nome dell'autore, Luigi Picchi, viene comunemente
chiamata «dei picchiatelli»: nome non so quanto appropriato al merito ma di
sicuro alla sua pretesa di cognominarsi dal Concilio e cacciar dal coro, come
«la sola da eseguirsi», tutte le altre.


Non l'ho sentita, difatti, e non sono in grado di giudicarne: so soltanto che
un vostro prete, essendo in chiesa per dovere di parroco mentre la celebrava
un suo cappellano, a un certo punto, del Gloria o Credo che fosse,
si ritirò, ché non ce la faceva a restare, per rientrar solo al termine; e per verità
se è piaciuta ai vostri, cui son piaciuti e piaccion quei testi, non può non esser brutta
forte, sia o non sia com'è parsa a un cattolico e musicologo non vostro amico,
Marino Sanarica, cui ha dettato, su una rivista, queste considerazioni seppur
d'indole generale: «I negri in fondo sono ancora dei sensitivi, senza cultura, laici
o preti che siano, onde si possono permettere, in chiesa, anche le fantasie e le
danze del ventre. Ma il brutto viene quando dei bianchi cianotici, progressisti e
disposti a farsi ingoiare dalla sottocultura, nel secolo della più strabiliante tecnica
musicale e dei più fascinosi arrangiamenti, che anche la massa digiuna di
studi musicali apprezza e ama, impongono al popolo cristiano roba che non sa
di nulla: nè di materia nè di spirito... E il popolo fedele dovrà sorbirsela, perché
così ha disposto il capo emerito della riforma liturgica: disposto e imposto!»



Senza giudicarla nel merito, ma solo come «allotropia del latino», molti
giornali (si capisce, «non cattolici», che ai «cattolici» è permesso solo lodare,
tutto e sempre lodare) ne hanno parlato con sdegno, lamentando anche questo
oltraggio alla Costituzione liturgica, e ne cito uno solo, che si stampa vicino
a noi, nel quale il nostro Pieraccioni si chiede, fra l'altre amare cose: «Possibile
che si seppelliscano con una semplice circolare - che è in questo caso tutto il
contrario di quanto il magistero della Chiesa, questa volta addirittura il Concilio
Ecumenico, ha sanzionato e stabilito - tradizioni millenarie di musica sacra, che
sono una vera gloria nella storia della Chiesa? La solennità del canto gregoriano,
il canto più bello e ispirato di tutti i tempi, scritto da autori che componevano in
ginocchio, ricchi di fede e di sensibilità religiosa, melodie che commuovono ancora
chi le ascolta. E tutta l'altra musica polifonica, giustamente riconosciuta dalla Chiesa,
dalle messe di Palestrina a quelle di Perosi... è davvero roba che distrae i fedeli, roba
da antiquari? ... Davvero si vuol continuare a cedere (che è poi mancanza di senso storico,
che in gente che sta per le chiese non dovrebbe mancare) a questo pauperismo o
"primitivismo" anacronistico e di pessimo gusto, che è tutto il contrario di quello
che la Costituzione liturgica, come sempre ripete da qualche mese nei suoi discorsi
il Pontefice, aveva stabilito e chiaramente stabilisce e prescrive?»



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Re: LA TUNICA STRACCIATA - Tito Casini

Message par InHocSignoVinces »

Pare di sì, caro Dino; e si fa di peggio, in fatto di canto sacro: si fanno cose
contro natura: si cuoce, dirò cosi, il capretto nel latte della madre, la cosa proibita
agli ebrei, facendo cantare in italiano con le note del gregoriano: cosa,
anche questa, espressamente vietata dalla Chiesa: «Lingua cantus gregoriani
est UNICE lingua latina»
e questo è Pio XII (Documenta pontificia ad
instaurationem liturgicam,
raccolti già dal padre Bugnini),
confermato da Giovanni XXIII («la lingua latina è INDISSOLUBILMENTE LEGATA alla melodia
gregoriana»
), codificato dalla Costituzione (articolo 91) e non certamente smentito
da Paolo VI allorché, consacrandosi, il 24 ottobre 1964, la ricostruita basilica
di Montecassino, lodava ed esortava la «nobile e santa Famiglia benedettina»
d'essere e conservarsi «la custode fedele e gelosa dei tesori della tradizione cattolica
e soprattutto la scuola e l'esempio della preghiera liturgica nelle sue
forme più pure, nel suo canto sacro e genuino, e nella sua lingua tradizionale, il
nobile latino...»



Povero nobile latino, trattato proprio da «nobile» da «ci-devant», come si
diceva - in nome di un «popolo» che si ritiene e si vuole zotico: zotico al punto
di non avvertire certe stonature, certi stridori avvertibili da chiunque abbia
avuto da Dio un paio di orecchie, siano pure lunghe e pelose come quelle che
voi gli attribuite. Ho sentito con le mie questo popolo parodiare ridendo le
vostre serie parodie dopo una di queste cantate in gregoriano-italiano che
facevano miseramente pensare alle penne del pavone appiccicate sul corpo
della cornacchia o, per rimanere nei termini, alle note dell'usignolo sul becco
del corvo; e ingenuo sarebbe ricordar che voi stesso, in quella vostra conferenza,
ammetteste che «tutto composto com'è su testi latini», il gregoriano
«esige testi latini»: pur di distruggere, d'«innovare», voi non badate a distrug-
gere fin voi stesso, e più che voi questo riguarda per verità i vostri: al gregoriano,
come al latino, voi personalmente non avete, e s'è visto, che una cosa da
dire: - Fuori di chiesa! -



Sì: voi siete in tutto voi stesso, sempre coerente con voi stesso, mentre non
lo sono sempre quegli altri: quei preti, per esempio, quei buoni pretini che
volendo in qualche maniera conciliar San Pietro con San Petronio hanno
ideato le messe anfibie: quelle messe «cantate» un po' in latino, un po' in volgare,
alternati, che suppongono nel popolo-ciuco una ciucaggine a intermittenza,
ma un'intermittenza curiosa, o furiosa che dir si debba, perché nella
medesima messa ora gli si dice o canta «Dominus vobiscum», segno evidente
ch'egli capisce le due difficili parole, ora gli si canta o dice «Il Signore sia con
voi»
, segno altrettanto evidente ch'egli non le capisce più... Povero popolo!



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Re: LA TUNICA STRACCIATA - Tito Casini

Message par InHocSignoVinces »

GALLI E CAPPONI


Povero popolo, poveri noi, lieti e fieri già di una Chiesa che abbiamo conosciuto e amato Noemi, e, passata per le vostre mani, ci ritorna, ora, Mara, gemendo come la donna di Betleem: «Non mi chiamate più bella, chiamatemi amata, ripiena come seri d'amarezza e ridotta in miseria!»


«Pregare in bruttezza». Sembra sia l'impresa dei vostri, contrapposta a quella di san Pio X: «Pregare in bellezza»; e bisogna proprio esser certi, come noi siamo, che il vostro fanatismo, il vostro furore iconoclastico è di retta intenzione, rovente del più puro e apostolico zelo del bene, per credere che la setta, la massoneria, non ci abbia messo lo zampino, non vi abbia dato una mano, conforme a ciò che ha fatto in passato componendo e diffondendo certe «preghiere» e certi «santini» fatti per screditare, col loro cattivo gusto, la pietà e la virtù. Per questo - coerenti in tutto, nella vostra antipatia per il bello - voi ve la siete presa col canto, l'espressione più bella della preghiera, imponendo una riforma, un'operazione, in materia, del genere di quella che trasforma i galli in capponi: via la cresta, via i bargigli, via quegli aggeggi e tutti a croccolare con le galline e le anatre, senza quei chicchirichì che san di «trionfalismo», di «estetismo», e non vanno, in un'«assemblea comunitaria»... anche se a una di quelle voci chi aveva rinnegato il Maestro sussultò e pianse: anche se la liturgia esalta il gallo, per ciò che vale il suo canto: «Gallus iacentes excitat... Gallus negantes arguit... Gallo canente spes redit...»


Né si vuol, con questo, negare che anche le galline e l'anatre e l'oche, come
i corvi e le cornacchie, abbian la loro parte e importanza nella polifonia del
creato: si vuole, o si vorrebbe, soltanto che dal canto delle lodi divine non
fossero banditi i galli, o gli usignoli, i fringuelli, le capinere, le allodole...
non facendo loro una colpa di avere avuto da Dio un'ugola più varia, una voce più
bella.



A questo siamo, e parrà incredibile, mostruoso, a chi verrà dopo questo:
con lo stesso folle disprezzo con cui s'è parlato (parlato, non potendosi
adoperare il tritolo o disporre di un terremotino locale) contro i Michelangelo, gli
Arnolfo, i Bernini, autori di «chiese non funzionali», si è proceduto contro un
Palestrina, un Victoria, un Bach, un Händel, un Perosi (per non dir che alcuni
dei tanti grandi che hanno con le loro note, «ex auditu», innalzato le anime a
Dio più efficacemente di ogni parola) intimando loro il «fuori di chiesa» per
darne il posto a... a un Luigi Picchi, che non conosco, ripeto, ma che non credo
lusingato dal gioco che si fa sul suo nome per dire da dove a dove voi ci avete
portati in fatto di musica sacra: dalla Missa Papae Marcelli alla messa dei picchiatelli.



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Re: LA TUNICA STRACCIATA - Tito Casini

Message par InHocSignoVinces »

L'ho risentita, mesi addietro, a Roma, cantata dagli «Ambrosian Singers» di
Londra, l'ho risentita a Firenze, nella stupenda esecuzione della Cappella Sistina,
questa Missa Papae Marcelli, antica di quasi cinque secoli, e ho sentito
nella mia anima e ho letto negli occhi degli altri che ascoltavano insieme a me,
cattolici e protestanti, come Paolo VI abbia potuto, ricevendo nel gennaio
dell'anno scorso il complesso della «Deutsche Oper» di Berlino, parlar di musica
religiosa ambasciatrice di Cristo. Infatti! «Non vogliono leggere il Vangelo
e io glielo faccio conoscere in musica»:
così il Perosi, e chi riferisce le sue parole
- Armando Dadò, uno che cantò nel suo coro - aggiunge: «La folla anonima e
profana nell'ascoltare le sue opere ha sempre inconsciamente subito questo sublime
tranello, tanto è vero che alcune conversioni al cattolicesimo furono un
prodotto della sua musica».



Bellezza santificante, «beauté sanctifiante», diremo dunque con le parole di
una poetessa francese, Maria Noél, che chiede, piangendo anch'essa sullo
scempio che voi, i «clercs novateurs», propugnatori di una religione parolaia,
«une religíon discoureuse», avete fatto di ciò che l'arte, figlia di Dio, aveva
creato in sua lode: «Hanno mai riflettuto questi riformatori - calvinisti in ritardo -
sul Dono, fatto alle folle, di questa liturgia cattolica grazie alla quale la
Chiesa militante, percorrendo la sua strada terrestre, sfiora talvolta i primi radiosi
gradini della Chiesa trionfante e gusta un istante il cielo? Il Dono della
Chiesa al popolo, che ben lo comprende? La molteplice ricchezza liturgica,
l'appello fra cielo e terra del Rorate dell'Avvento, la sua sublime aspirazione
desolata e consolata; il Gloria, laus marciante e verdeggiante della Domenica
delle Palme; l'Exsultet della veglia pasquale; i grandi Alleluia di Pasqua nel
tripudio delle campane; il gemito d'oltretomba dell'Ufficio dei Morti, il suo
terrificante e supplice Dies irae; il Parce, Domine, implorante delle pubbliche
calamità; il Te Deum folgorante, sovrumano, degli epici rendimenti di grazie...
tutta questa magnificenza cantata, la Chiesa cattolica la dona al popolo,
nell'ineguagliabile eguaglianza della sua carità universale, al re come al più piccolo
dei suoi piccoli, al primo morto che entra, al primo mendicante che passa...»

Eguaglianza, altro che «comunitarismo»! ma eguaglianza in alto, torniamo a
dire con la poetessa, che aggiunge: «Le parole tanto ripetute di Veni Creator,
Miserere, De Profundis, Magnificat, Te Deum e via e via erano diventate nostra
ricchezza familiare, grazie alla magnificenza della Chiesa cattolica, la cui
preghiera secolare innalza e valorizza, a loro insaputa, gli umili più che le lezioni
e i discorsi di tutti i tempi e di tutti i luoghi».



La musica sacra ha in questo un posto e un primato, che solo i sordi possono
ignorare. «Se l'Arte», scrive un illustre musicista, «è un dono di Dio all'umanità,
l'artista è come uno strumento che opera, talvolta inconsapevolmente, al di
fuori e al di sopra di qualunque ragionamento intellettualistico e giunge là dove
nessun altro potrebbe arrivare. La liturgia della Chiesa ha trovato nel canto e
nella musica la sua anima. Certi inni festosi o certi versetti tristissimi ricevono
dalla musica la loro caratterizzazione più evidente e più immediata. Chi non
riconoscerebbe la letizia che scaturisce dal repertorio sia gregoriano sia polifonico
che i musicisti nei vari secoli, hanno preparato per la festività pasquale?
Basterebbero le prime note del Kyrie nella notte del Sabato Santo! O la bellissima
sequenza di Pasqua, o il sereno Sicut cervus palestriniano per la benedizione del Fonte,
o il sublime offertorio Terra tremuit col trepidante Alleluja...
Chi non riconoscerebbe l'intensità dei canti gregoriani della liturgia del Venerdì
Santo per lo scoprimento e per l'adorazione della Croce, così come ce li hanno
tramandati i secoli, o degli immortali Improperia palestriniani?... E così potremmo
proseguire all'infinito, e dovremmo dire dei canti dell'Avvento, della liturgia dei Morti,
eccetera. Insisto sulla Settimana Santa perché essa ha avuto
una tale interpretazione nelle musiche liturgiche da costituire un monumento a
sè di universale bellezza».



La Settimana Santa ...! E ricordando e confrontando mi viene ancora da
piangere.


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Re: LA TUNICA STRACCIATA - Tito Casini

Message par InHocSignoVinces »

RICORDI DI UN CANTORE DI CHIESA


Ho assistito a parte dell'ultima, nella parrocchia cui dianzi mi riferivo, e...
non occorreva la denudazion degli altari, non occorreva vedere allo scoperto,
in tutta la sua bruttezza, il trabiccolo su cui, schiena all'altare, si obbliga tutti
i giorni il povero Gesù a scendere, per sentir tutta la tristezza dell'ora, dico
dell'ora o era liturgica che da voi si denomina. La chiesa semivuota e gl'improperi
del parroco contro i popolani che non si prestavano ad aiutarlo, non gli
davano né una mano né... un piede (per mettere insieme i dodici della «lavanda»),
accentuavano la diversità dagli altri anni, quando, pieno il coro e
piene le navate, tutto il popolo partecipava con le labbra e col cuore, cantando
e ascoltando, a quelle cerimonie, a quei Mattutini, quelle Lamentazioni in
canto fermo, quel Miserere a quattro voci, quel Vexilla, quello Stabat Mater
solenni, che ti commovevano, ti facevano davvero «lugere», piangere, più di
qualunque «liturgia della parola» o predica sulla Passione.



Esser del coro era allora, nelle campagne, un ambito onore (ogni parrocchia
aveva il suo e n'era fiera), per il quale non si badava a sacrifizi, non costava
andar di notte, per le prove, alla chiesa, nevicasse pure o diluviasse, o si
avessero pur l'ossa rotte dalla fatica, o si dovesse rimandar l'incontro con la
ragazza, quando non fosse anche lei del coro ossia delle canterine... Com'eran
belle quelle nostre Messe cantate! All'uscita di chiesa il popolo, entusiasta,
faceva festa ai suoi cantori: «Bravi! Bravi! Bravi!» e festa era anche lo scherzo
con cui qualcuno commentava la stecca che c'era eventualmente scappata,
parlando di cappella si-stona... Era, quel plauso dei popolani, tutta la loro mer-
cede, con l'aggiunta di un desinare dal parroco la Domenica delle Palme
(all'inizio, cioè, della Grande Settimana: Hebdomada Maior, anche per loro, dico
per le loro voci), di un bicchier di vino ogni tanto, al termine delle funzioni
serali, e, a questo sì che si teneva, una Messa da morto cantata dai compagni
che rimanevano, per il compagno ch'era andato a cantar lassù... Aspetto anch'io,
come già cantore della mia chiesa, quella Messa in die obitus, e che sia
(faccio conto di parlar qui, ai miei ex-compagni, e pur nella speranza che il
sole sia già risorto quando io tramonterò) quella stessa che noi abbiamo cantato
per gli altri qui nos praecesserunt... Ve ne prego, amici, per tutto ciò che di
sublime (quella sequenza! quel prefazio!) vorrei pur sentire sulla mia bara, e
per tutto ciò che di grottesco e scempio vorrei non sentire: perché... dopo
avere le tante volte rabbrividito, salutarmente rabbrividito, col gregoriano o
con Perosi, al senso e al suono di quella strofa, di quelle agghiaccianti rime in
urus:
«Quid sum, miser, tune dicturus, quem patronum rogaturus, cum vix iustus
sit securus?»
non mi tocchi, lì, vedermi parodiato o parodiante nell'atto di chi,
con l'elenco in mano, si chiede a chi telefonare per la difesa di una sua causa:
«Nella mia miseria che dirò? che avvocato inviterò, se il giusto è appena sicuro?»
(e misero me, davvero, se nella realtà avvenisse come nella «traduzione»,
dove il «vix» riferito a «securus» invece che a «iustus» fa credere che
non basti esser giusti per esser salvi, e chi mai allora si salverà?) Come non
vorrei, nato, vissuto e morto da fedele cattolico, parlare, nella bara, da eretico,
da calvinista dicendo a Dio, nella cui misericorde giustizia avevo creduto: «O
Re di terribile maestà, che salvi chi vuoi, per tuo dono» eccetera eccetera: cose
da far rizzare i capelli, parlo qui della traduzione, non del Giudizio, e non son
che due fiorellini colti a caso dal bosco, su cui grammatica e catechismo spargono
le loro lacrime chiedendosi chi più n'abbia ragione.



Com'eran belle quelle nostre Messe cantate! Come ci commovevano, noi
l'«autentico popolo», come ci facevano credere e amare e sperare, come
ci facevano gustar di cielo quei Kyrie, quei Gloria, quei Credo, quelle sequenze,
scritti «da autori che componevano in ginocchio» e facevano perciò inginocchiare ...!
Il confronto ravviva in noi l'ammirazione e il rimpianto, quando non
prevalgan la nausea e l'indignazione... Ho sentito poco fa «declamare»
nel vostro testo una di quelle meravigliose sequenze (il Lauda, Sion, il sublime
catechismo eucaristico che san Tommaso compose, parole e note, «in ginocchio»
e sa per noi di ginestre, di siepi in fiore, di campi spigati, di campane sciolte,
di vesti, di luci, di canti a festa: la grandiosa gaudiosa festa del Corpusdomini)
e ho lottato per non fuggire o avvicinarmi al trabiccolo e far ciò che Dante fece
con gli arnesi del fabbro che guastava le cose sue, i suoi versi...
Mi chiedevo,
dianzi, se i nemici della Chiesa non vi abbian dato, ai loro fini, una mano nella
preparazione dei testi che portano, autografo e solenne, il vostro Imprimatur;
e chi non se lo chiederebbe davanti a «strofe» come queste che san Tommaso
mi perdonerà di trascrivere (scegliendo fior da fiore) accanto alle sue, non
fosse che per intendere, col suo latino, il significato dell'italiano?



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